Obama gioca in porta
Flaminio Oggioni
Giorgio correva veloce verso la porta lontana, volava nella polvere dello sterrato, volava sui suoi piedi magri e nudi, volava come Fasoli, l’ala della Pro Patria.
La mamma, il giorno che lo aveva portato in collegio dalle suore, vicino a Busto, lo aveva consolato: «Dai Giorgio, va’ come è bello qui, c’è il parco, il campo da football e le suore sono brave e poi se hai dei problemi la Carla, tua sorella, è qui con te.»
Giorgio ogni sera andava a letto e piangeva.
Stava meglio a Milano, anche se cadevano le bombe... lì c’erano la mamma, le sorelle, gli amici, il monopattino e il pallone che gli aveva regalato lo zio.
Sì, il pallone! Che passione! Bello, di cuoio stringato, l’unico del cortile.
Al pomeriggio dopo i compiti, tutti lì a correre scalzi dietro la palla e Milano era bella.
La testa si perdeva nella magica atmosfera della partita di pallone. Sparivano le macerie, l’urlo delle sirene e l’odore dei rifugi e il cortile sembrava l’Arena.
«Dai Giorgio, torna a casa, è tardi!» gridava la mamma dal balcone. «Sì, arrivo mamma, un attimo.» Raccoglieva le scarpe lasciate ai bordi del campetto, slacciava il fazzoletto annodato intorno al ditone del piede per calciare più forte e si toglieva la benda sulla fronte che proteggeva dalla stringa del pallone nei colpi di testa.
«Eccomi! Ma, mamma, ancora minestra!»
«Giorgio, mangia la minestra o salta la finestra!»