giovedì 27 agosto 2015

Il cuore di un pugile


Il cuore di un pugile

William Tavecchia


“You’re alone and you know
a few things: the stars are pinholes,
slits in the hangman’s mask.
And the crabs walk sideways
as they were taught by the waves.
You’ll be a dancer with two feet dancing
in the dirt-colored dirt.”

T. Lux, Solo Native in New and Selected
Poems, 1975-1995.



Sono nato in un piccolo quartiere di Napoli nel 1962, non ho mai conosciuto mio padre mentre mia madre era la prostituta del posto. Mio fratello Vincenzo, fan della boxe, a soli quattordici anni possedeva un destro micidiale ma, vivendo in un posto malfamato, dove i ragazzi della nostra età crescevano “malamente”, iniziò ad usare droghe d’ogni tipo bruciandosi la possibilità di diventare un vero pugile.


Mi chiamo Marco e a dieci anni ero già un grande appassionato di pugilato. Non perdevo nessun incontro che trasmettevano in televisione e adoravo guardare il cielo e le nuvole, soprattutto quando erano ferme e tranquille. A volte avrei voluto essere come loro.
Le mie giornate erano tristi, forse ero un asociale, raramente davo confidenza alle persone. Le mie insegnanti pensavano che avessi dei seri problemi in famiglia, certamente non ero felice della mia situazione ma, a quell’età, non ragionavo come adesso. I pomeriggi, finita la scuola, tornavo a casa passando da un parco del quartiere e mi fermavo su una panchina a disegnare il cielo e le nuvole. A nessuno interessava quello che facevo. Quando tornavo a casa, trovavo sempre un altro uomo nell’appartamento. Qualcuno mi accarezzava, qualcun altro mi tirava schiaffi. Fra i tanti c’era Tiziano, il macellaio del quartiere, un essere viscido.
Ogni volta che lo disturbavo mentre si faceva mia madre mi picchiava duramente.
Dopo la guardavo negli occhi, a lei non interessava, si accendeva una sigaretta, faceva un tiro molto lungo lasciando sopra al filtro il suo rossetto cremisi e rispondeva pure lei con uno schiaffo dicendomi: «Sei uno stupido... mi hai fatto scappare il cliente, ora come paghiamo l’affitto? Lo paghi tu?»
Ogni volta che diceva quella frase, il vuoto si accumulava dentro di me. Mi sentivo solo. Per cena mi preparava delle uova che a fatica mangiavo. Quando rientrava, mio fratello litigava sempre con mia madre, dopo si sedeva a tavola e cercava di strapparmi un sorriso. Alla sera, mentre ero davanti al televisore, incrociavo lo sguardo di mio fratello che rubava dei soldi dalla borsetta di mia madre, sorridendomi ancora. Nell’altra stanza sentivo mia madre con un altro uomo, mi tappavo le orecchie e guardavo gli incontri di boxe alla televisione. Assimilavo i movimenti dei pugili, li studiavo, imparavo e mi chiedevo come facessero a stare in piedi con tutti quei colpi. Mi ricordo quella volta che improvvisamente l’incontro si fece violento, mi alzai in piedi e urlai mentre le mie braccia colpivano a vuoto. Cavoli! Ero proprio scoordinato ma così sfogavo tutta la rabbia che avevo dentro. Mia madre entrò urlando e bestemmiando mentre io continuavo a saltare e ad imitare i pugili. Il cliente se ne andò via incazzato e io presi mille sberle e mille calci.
Sentivo il sapore del sangue... la guardavo e resistevo. Quando finì di pestarmi, la fissai negli occhi e dissi: «Mamma, io posso resistere all’infinito e ricordati che quando sarò un uomo tu rimarrai sola, non mi vedrai più!» Mi scrutò con gli occhi gonfi, pieni di lacrime, con la mano aperta in procinto di colpirmi ma improvvisamente esitò, piegandosi su se stessa, rannicchiandosi a terra, chiedendomi scusa. Non provavo alcun sentimento per lei, vedevo le madri dei miei compagni di classe che erano lontane anni luce dalla mia. Purtroppo la mia vita era questa e forse non avrei avuto possibilità di migliorarla.
Andai a dormire, sentivo dolori alle gambe e alle braccia, avevo fame e freddo. Mio fratello non tornava e probabilmente sarebbe rimasto fuori tutta la notte. Mia madre era rimasta nell’altra stanza, in attesa di qualche nuovo cliente. Il mattino successivo trovai mio fratello di fianco al letto; dormiva e, molto probabilmente, non sarebbe andato a scuola. Feci colazione da solo. La scuola, per quanto la odiassi, era l’unico posto dove potevo rilassarmi e cancellare momentaneamente i brutti ricordi che mi rovinavano la vita. Nell’ora di matematica disegnavo le nuvole. Non era una bella giornata, il cielo era grigio e carico di nuvoloni. Le riproducevo sulla carta alla perfezione, il mio disegno era uguale al cielo sopra la mia testa.
Terminate le lezioni mi fermai nel solito parco del quartiere. Era molto tranquillo anche se ben presto sarebbe piovuto. Improvvisamente venni strattonato da dietro e caddi a terra, dei ragazzi più grandi mi stavano picchiando. Sentii che frugavano nel mio zaino. Non riuscivo a muovermi. Continuavano a colpirmi e a ridere, persi l’orientamento. Presero la mia merenda e stracciarono i miei disegni. Improvvisamente arrivò mio fratello, mi difese colpendo gli aggressori, i tre ragazzi risposero ma lui resistette, provai ad alzarmi ma uno di loro mi colpì con un calcio allo stomaco, raccolsero le ultime cose e scapparono. Ero a terra inerme, ferito e umiliato, di fianco a me mio fratello aveva un sopracciglio aperto, perdeva sangue e aveva gli occhi lucidi, mi fece rialzare e improvvisamente mi colpì in faccia con un pugno. Caddi di nuovo a terra, l’impatto fu tremendo, scoppiai a piangere, si mise sopra di me e iniziò a urlare: «Devi crescere, devi diventare più forte, se da grande sarai così, non sarai mai nessuno!»
Mentre gli uscivano quelle parole terribili, singhiozzava e piangeva.
Il cielo era grigio e iniziò a piovere, eravamo distesi l’uno sopra l’altro sporchi di sangue e umiliati, mi abbracciò dicendomi che per lui ero la persona più cara al mondo. Guardai a destra, il mio disegno era diviso a metà in mezzo a una pozzanghera, quelle belle nuvole erano diventate tristi come me.
Tornammo a casa zoppicanti, non era la prima volta che venivo aggredito. Ricordo che lo fecero anche quando avevo otto anni, ero da solo e i miei aggressori erano quattro volte più grossi di me. Nessuno portava rispetto, dovevi cavartela per conto tuo. Arrivati a casa, Vincenzo iniziò a medicarmi, a malapena disponevamo di cerotti ma bastò della carne fredda sull’occhio a calmarmi il dolore. Mio fratello chiamò la mamma. Non rispose. Aprì con cautela la porta del bagno e all’interno della vasca la vide. Restò pietrificato. Cercai di capire perché non si muovesse. Mi alzai dolorante dalla sedia e sbirciai nel bagno. La mamma era piegata su se stessa, con un viso senza espressione. Il sangue aveva raggiunto il lavandino e Vincenzo non riusciva a muoversi. La guardai ancora... ci aveva abbandonato... non era riuscita a resistere. Si era tagliata le vene. Non provavo più sentimenti, ero un’anima vuota che vagava all’interno di quella casa maledetta, neanche una lettera di addio! Mamma!
Passò un anno, non parlavo, non ridevo, non pensavo, non disegnavo, mio fratello era sparito ed io ero in un orfanotrofio. Le suore mi trattavano bene. C’erano molti ragazzi di strada, orfani o più semplicemente abbandonati come cani. L’ educazione era severa ma riuscivo a sopportarla, ogni giorno incrociavo lo sguardo dei miei compagni, avevano i miei stessi occhi persi nel vuoto. A volte mi domandavo cosa sarebbe successo in futuro, quale sarebbe stata la mia vita.
Invece arrivò un giorno che avrebbe cambiato per sempre la mia esistenza. Le suore mi incaricarono di portare alcuni libri in biblioteca; mentre attraversavo i corridoi, decisi di passare per la palestra. Anche se quel posto era freddo e umido mi piaceva vedere i ragazzi della mia età giocare ed allenarsi. Quando entrai vidi due ragazze giocare con una palla, forse intimorite dalla mia presenza lasciarono il pallone a terra e scapparono via. La palla iniziò a rotolare e attraversò gran parte della palestra, finendo in uno stanzino buio. Da quando ero all’orfanotrofio, non avevo mai fatto caso a quel posto. Incuriosito andai a vedere, non riuscivo a capire cosa contenesse, allora accesi la luce e vidi qualcosa di incredibilmente bello: un enorme sacco da boxe appeso al muro.
Rimasi a fissarlo a bocca aperta, era come quello che usavano Nino Benvenuti e Carlos Monzon, buttai per terra i libri e iniziai a colpirlo.
I polsi mi facevano male, le nocche sanguinavano ma non mi fermavo, continuavo a colpirlo e sentivo che tutta la rabbia che avevo accumulato svaniva improvvisamente.
«Hai visto? Ha vinto lui!»
Mi girai e vidi Francesco, il bidello dell’orfanotrofio.
«Mi scusi! Me ne vado subito!»
Francesco mi guardò e disse: «Uè guagliò chisto non è il modo per colpire o’sacco! Mò te faccio vedere io!»
Si mise davanti e iniziò a colpirlo con pugni ben assestati e precisi, adesso era un semplice bidello ma si vedeva che aveva fatto del pugilato in passato.
«Hai visto? Ora prova tu, tieni le braccia a questa altezza, piega il mento e apri le gambe per stabilizzarti, quando sei pronto, ruota il bacino e colpisci più forte che puoi! Forza guagliò!»
«Così?»
«Sì bravo! Dai! Ancora! Forza! Ora usa il destro!»
«Va bene?»
«Sì! Ottimo! Non perderlo mai di vista, lui è un uomo, non è un sacco, ricordatelo sempre!»
Continuai per diversi minuti, mi piaceva da impazzire, sentivo il cuore che batteva come non mai, mentre Francesco mi dava sempre più consigli...
«Sei in gamba ragazzino, quanti anni hai?»
«Undici!»
«Undici anni e hai quel pugno?»
«Eh... sì!»
«C’è una cosa che non mi piace però!»
«Cosa?»
«Non ridi!»
«Ridere?»
«I pugili più forti quando si allenano, quando soffrono, ridono, devi sorridere alla vita!»
«Ok, ci proverò! Tu hai combattuto?»
«Sì! Ero un pugile, questa è una foto di quando ero giovane, non sono mai stato un campione a differenza di mio fratello. Però ho imparato molto da questo sport. Ora è meglio che torni in classe, se no ti puniscono!»
«Grazie di tutto.»
«Di nulla, come ti chiami?»
« Marco...»
«Bravo Marco! Domani vieni che ti alleno!»
«Allenarmi?»
«Sì... e se non vieni mi arrabbio!»
Per un attimo sentii le mie labbra sollevarsi e trasformarsi in una mezza luna, stavo ridendo! Mi sentivo felice. Finalmente un giorno in cui ero contento e allegro. Mi precipitai per i corridoi con i libri in mano, fuori c’era un sole bellissimo, mi bruciavano le nocche ma quel fantastico stato emotivo non mi faceva sentire il dolore.
In quel momento avrei potuto scalare una montagna!
A partire dal 1973, Francesco mi allenò tutti i santi giorni. Finite le lezioni arrivava e mi portava davanti al sacco. Mi allenavo in quello stanzino abbandonato. Più passava il tempo e più Francesco diventava severo, mi diceva sempre di non parlare e di ubbidire, io non fiatavo, assimilavo ogni sua parola e pian piano capivo cosa significava il pugilato.
Passavano gli anni, lui invecchiava e io crescevo. Le mie giornate erano dedicate allo studio, all’amore per Dio e per il pugilato. Ogni sera pregavo e desideravo ardentemente di diventare un pugile. A diciotto anni, Francesco, che per me era ormai come un padre, mi disse che era ora.
«Ora di cosa?»
«Ti ho allenato per sette anni, ho creato un uomo, per me sei come un figlio, è il momento!»
«Mi vuoi lasciare?»
«No! Adesso per te è il momento di andartene!»
«Andarmene?»
«Sì... ho già parlato con mio fratello Luca, è stato un grande campione, è ora che ti alleni lui e che ti faccia combattere!»
«Ma...»
«Niente ma! Tu sei il fulmine in quelle nuvole, per te è arrivato il momento di colpire!»
Quelle parole risuonarono nella mia mente, capii che era ora di mettere in pratica i suoi insegnamenti, mi sentivo fortissimo e determinato, finalmente ero un uomo. Mi abbracciò e mi mise in tasca duecentomila lire per andare a Roma, dove avrei potuto conoscere suo fratello, mi diede l’indirizzo e lasciai l’orfanotrofio. Mentre mi dirigevo verso la stazione ferroviaria, ero convinto che avrei scalato il mondo, non ero spavaldo ma, dopo tutti quegli anni difficili, forse i miei sogni sarebbero diventati realtà.
Arrivai a Roma, era una città meravigliosa, donne bellissime, negli anni ottanta era veramente un posto magico. Giunsi alla palestra di suo fratello. Vista da fuori la Thunder sembrava un posto tremendo, una volta che ci entravi non ne uscivi...
Aprii la porta ed entrai: ring, sacchi da boxe, atleti che saltavano la corda, gente che faceva le flessioni e al centro un cinquantenne che urlava. Era Luca, alto, biondo, con delle braccia enormi, sottili e gelidi occhi azzurri. Il suo sguardo faceva tremare chiunque.
«Ti interessa qualcosa?» domandò l’addetta alla reception.
«Sì signora, vorrei parlare con Luca.»
«Non vedi? Adesso sta allenando, per favore passa dopo, ragazzino.»
«Vengo da Napoli, signora.».
«E io sono qui dalle 7.00! Allora?»
Capii che non sarebbe stato facile, nella mia vita tutto era difficile.
Mi sedetti e guardai un ragazzo che si allenava.
«Stai sbagliando secondo me...»
«Come ? Tu che ne sai di Boxe?»
«Posso?»
«Vediamo... occhio a non romperti i polsi.»
Colpii il sacco con diversi uno-due e sentivo che avevo addosso gli occhi di alcuni di loro.
«Non male... Non male davvero!»
«Grazie e scusa se mi sono intromesso.»
Tornai a sedermi fino a quando la figura di quell’uomo che era in mezzo alla palestra venne verso di me, mi alzai rapidamente e tirai indietro i capelli.
«Che ci fai qui, moccioso?»
«Salve, sono...»
«Chi sei ? Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
«Mi chiamo Marco e mi manda suo fratello.»
«Ah... già... vuole che ti alleno, sentiamo... perché dovrei perdere il mio tempo?»
«Non lo so...»
«Bene! Non lo sai... facciamo così, sali sul ring e fammi vedere qualcosa che sai fare, se te la cavi, allora potrai iscriverti qui. Io alleno solo campioni, non perdo tempo!»
«Non ho mai combattuto su un ring...»
«Male! Allora tornatene a casa!»
Si girò e se andò in mezzo alla palestra, sentivo il braccio destro tremare e dalla rabbia urlai!
«Vengo da Napoli, non ho niente, sono un orfano, mia madre è morta e mio padre non l’ho mai conosciuto, non vedo mio fratello da otto anni e i pochi soldi che ho in tasca me li ha dati suo fratello! Non me ne andrò fino a quando non mi metterà alla prova, voglio diventare un pugile!!!»
Iniziarono tutti a ridere, un tizio si avvicinò e mi diede uno spintone urlandomi di tornarmene subito a Napoli.
Non esitai, salii sul ring e lanciai la sfida a quell’uomo.
Mi gettarono dei guantoni mentre quell’altro ridendo saliva sul quadrato.
Era di una categoria superiore ma ormai avevo una determinazione incredibile, in quel momento avrei fatto a pugni anche con Cassius Clay.
«A regazzì, io faccio boxe da ‘na vita, non vojo mannarte all’ospedale cor nasino rotto!»
Tutti risero di nuovo, mentre Luca mi osservava.
Iniziò la sfida, il romano avanzò verso di me, colpendomi con alcuni Jabs.
«E daje! Pulcinella famme vede che sai fa’! Adesso te faccio volà sopra er Vesuvio!»
Mi abbassai per schivare i colpi e gli tirai un montante al mento.
Fine dell’incontro! Silenzio tombale. Nessuno fiatava. L’uomo in mezzo al ring era al tappeto.
Scesi dal ring, mi batteva forte il cuore e facevo fatica a parlare.
Luca si avvicinò e mi disse:
«Bravo! Hai un bel destro, mi hai impressionato.»
«Bene! Da quel che dici sei a bolletta, giusto?»
«Esatto!»
«Allora facciamo così, ti trovi un lavoretto e mi paghi mensilmente ok?»
«Ok, posso restare a guardare?»
«Ma certo! Fai pure!»
Luca si allontanò urlando ai suoi pugili di ricominciare ad allenarsi perché la ricreazione era finita. Mentre ero seduto a guardare incrociavamo gli sguardi, forse gli ero piaciuto.
Rimasi tutta la giornata, mentre il tipo che avevo colpito si scusò per la brutta accoglienza. Si chiamava Romolo e sarebbe diventato un grande amico. Giunse l’ora di chiusura, lasciai la palestra e mi sedetti su una panchina, aspettando l’uscita di Luca, volevo salutarlo. Chiuse la porta e iniziò a camminare facendomi un cenno con la testa, ma improvvisamente si fermò e tornò indietro.
«Scusa Marco ma, dove vai a dormire?»
«Qui può andar bene.»
«Su una panchina?»
«Non ho soldi per un albergo e poi si sta bene qui a Roma, fa caldo.»
«Dai vieni ti faccio dormire in palestra.»
«Davvero?»
«Sì però niente donnine!» disse ridendo.
Luca riaprì la palestra e mi fece accomodare in un piccolo ufficio con una poltrona spelacchiata ma comodissima. Ero lì solo da poche ore ma amavo già quel posto.
«Puoi dormire lì, se hai sete o fame di là c’è il frigorifero. Guardaci dentro, sicuramente salumi e formaggi non mancano!»
«Grazie! Grazie ancora!»
«Di niente ragazzino, domani vieni con me, ti cerco un lavoro, ora devo andare, ciao.»
All’apparenza era un uomo freddo e distaccato ma, sotto sotto, aveva un grande cuore, vedevo in lui una figura positiva, un esempio da seguire. Appena uscì, la voglia di colpire il sacco prese il sopravvento, mi misi davanti e iniziai ad esercitarmi. Improvvisamente mi fermai a guardare le foto della palestra, in una Luca era con suo fratello, con una cintura da campione.
«L’ho vinta nel 1960.»
Mi spaventai, pensavo di essere solo, Luca era ancora lì.
«Mamma mia! Mi ha fatto spaventare.»
«Scusa, non era mia intenzione. Quella è la cintura dei pesi medi, ero velocissimo, mi chiamavano Thunder... tuono!»
«Thunder? Come il nome della palestra...»
«Esatto, vuoi venire a fare una passeggiata con me? Andiamo a prenderci un gelato.»
Iniziai a camminare per Roma e Luca mi parlava della sua vita e di quello che aveva fatto, lo ascoltavo come se fosse mio padre, non mi sfuggiva niente, era conosciuto, molti ci fermavano o lo salutavano, mi piaceva stare con lui.
«Che gusto vuoi?»
«Mmm... non ho mai mangiato un gelato così.»
«Come? Non hai mai mangiato un cono di gelato artigianale in vita tua?»
«Così no! All’orfanotrofio ci davano solo le coppette della Motta due o tre volte all’anno. Solo panna e cioccolato. Non sapevo nemmeno che esistessero tutti questi gusti!»
Mi prese un cono pistacchio, fragola, banana e ananas... non avevo mai assaggiato niente di più buono in vita mia!
«Mannaggia! Mai visto una cosa del genere, però vai piano, non abbuffarti. Non vorrei che al posto di un pugno ti mettesse ko un gelato!»
«Sì signore!»
Ci sedemmo su un muretto ad ammirare Roma e la sua gente.
Luca mi parlò di lui.
«Ero orfano anch’io, lo sai?»
«Davvero?»
«Mai conosciuto mio padre e mia madre se ne andò abbandonandomi. Vedi questa foto? Questo sono io a vent’anni, feci un incontro a Milano, incassai molti colpi ma vinsi, per la stampa fu un grande match. Vedi il mio naso? Ha preso più pugni lui di un sacco da boxe eppure guarda, è ancora messo bene!»
«Lo vorrei anch’io un naso come il suo.»
«Sì, fra un mese lo avrai come il mio. Ma dimmi... perché vuoi diventare un pugile?»
«Perché fin da bambino seguivo questo sport e la vita mi ha insegnato a rialzarmi ad ogni caduta.»
«Domani inizierai ad allenarti; secondo mio fratello, tu sei una promessa.» Tornai in palestra e riposai per tutta la notte, immaginando come sarebbe stata la mia nuova vita.
Il mattino seguente, grazie a Luca, trovai un lavoro come cameriere presso un ristorante. Iniziai subito e finito il lavoro andai immediatamente in palestra.
Feci questa vita per più di un anno, gli allenamenti erano intensi, duri e massacranti, ma lì dentro eravamo uomini liberi. Tutto quello che eravamo fuori, dentro non contava.
Crescevo giorno dopo giorno, maturavo e credevo in Luca, mi aveva dato tutto, le mie mani sprigionavano un’energia che avrebbe potuto stendere gran parte dei pugili della mia età. Il mio insegnante non si risparmiava e odiava i miei addominali, riteneva che se non fossero diventati duri come la roccia non sarei salito su nessun ring. Piano piano, venivo forgiato, la vita mi aveva dato una dura lezione, la mia mente era pronta, dopo tutti quegli anni di allenamento potevo combattere e dimostrare a me stesso quanto valevo.
Arrivò finalmente il giorno del mio primo incontro. Luca credeva in me e nelle mie capacità... sapevo che non lo avrei deluso. Guardandomi allo specchio vidi il cambiamento, finalmente ero un uomo.
Suonò la campanella, ero al centro del ring, le labbra mi bruciavano per i colpi ricevuti, ma sapevo anche che il mio avversario vedeva annebbiato. I miei diretti lo avevano stordito. Cercò di entrare nella mia guardia, ero troppo stretto e coperto e come un fulmine a ciel sereno lo colpii con un gancio alla mascella.
Cadde e non si rialzò.
Per la prima volta in vita mia realizzai che avrei fatto solo il pugile, avevo vinto il primo incontro della mia vita. Da quel giorno partì una serie di incontri continui, passavano gli anni e vincevo, non perdevo mai, concludevo i match il più velocemente possibile. Ero apprezzato dalla gente e dal mondo della boxe. Sapevo farli divertire e guadagnavo abbastanza bene. Roma mi aveva dato la possibilità di diventare un uomo, giravo per il centro e molti passanti mi sorridevano mentre qualcuno accennava un saluto, a volte ero pure sui giornali. Luca addirittura mi affibbiò il nome di Marco Thunder, per lui ero la nuvola serena che una volta salito sul ring diventava tuono. Finalmente dopo anni di sacrifici e combattimenti, sofferenze e sangue, arrivò il giorno fatidico.
Berlino, 9 febbraio 1985. L’incontro che avrebbe incoronato il nuovo campione del mondo dei pesi medi. Ricordo che ero negli spogliatoi a disegnare le mie amate nuvole, fuori sentivo le urla dei tifosi, il palazzetto ospitava 15.000 persone e in palio una cintura che valeva milioni di lire. Per me era tutto, la desideravo, entrò Luca e dissi di prepararmi, il foglio da disegno era piegato e rovinato in alcuni punti per quanto avevo calcato, lo avevo bucato.
«Sei pronto, Thunder?»
«Prontissimo!»
«Tu sei il tuono e adesso è ora di colpire, mi hai capito? Ripeti!»
«Io sono il tuono e adesso è ora di colpire!»
«Bravo ragazzo, sarò con te fino alla fine, non butterò mai quell’asciugamano, piuttosto ti faccio morire!»
Mi alzai dal tavolo, saltellai ed uscii dalla porta principale, pantaloncini e accappatoio gialli con tricolore sulla schiena, sguardo freddo, battiti cardiaci sotto controllo, respirazione ok, ero pronto. Il mio avversario era un tedesco: Ludwing Strutt, campione del mondo dei pesi medi, temuto e molto scorretto. Luca mi aveva incoraggiato, quell’asciugamano l’avrebbe buttato, solo che per lui ero come un figlio, non aveva mai espresso quel sentimento, ma potevo percepirlo.
Superai il lungo corridoio e vidi la luce, ero fischiato, insultato, “giocavo” fuori casa e sentivo che l’aria era irrespirabile, dovevo sorridere, dimostrare che tutti i loro “BUUUUU!” non mi spaventavano. Ludwing Strutt davanti a me, faccia a faccia, pelato e sfregiato, ringhiava, potevo sentire il suo fiato puzzolente, percepivo che sarebbe stato un incontro all’ultimo sangue.
Iniziò la prima ripresa: entrambi al centro del ring, ci studiavamo, cercavo di capire i suoi punti deboli. All’improvviso mi colpì, senza pietà e senza paura, persi malamente l’equilibrio e mi ritrovai lungo e disteso. Mi rialzai subito, il tedesco non mi diede neanche il tempo di respirare, affondò il suo sinistro sulla mia mascella, l’impatto fu tremendo ma non crollai.
Quarta ripresa, Luca urlava, stavo perdendo, ero disorientato, non capivo cosa mi stava succedendo. Quinta, sesta, settima ripresa, erano dolori, il tedesco non si fermava, resistevo, ma fino a quando?
 Tornai all’angolo, sfinito, fischiato, debole, Luca provò ad incoraggiarmi...
«Che ti succede, Thunder?»
«Non ce la faccio... è troppo forte... non ho fiato!»
«Ah... è così? Ho perso i miei anni per allenare un pivello e un debole? Sei venuto da Napoli per farmi perdere tempo? Ora ascoltami bene... ascoltami! Tu sei ancora troppo sereno, ora vai al centro di quel cazzo di ring... e sputi fuori tutto lo schifo che ti sei preso in questi anni della tua vita. Hai capito bene? Tu sei il tuono!!! Ora vai in mezzo e mandi al tappeto quel mangiacrauti e zittisci tutto il pubblico, ci siamo capiti? Tu sei un campione! Non lui! Ficcatelo in quella cazzo di zucca!!!»
Partì l’ottava ripresa, Strutt si avvicinava con rabbia, sapeva che stava per vincere. Era soprannominato il “Mostro di Dusseldorf” ed era pronto a sbranarmi. Ero stanco, debole e senza fiato ma ancora con una rabbia allucinante in corpo. Sentivo che fuori iniziava a piovere, acqua e vento colpivano i vetri del palazzetto. Il mostro si avvicinava ed era pronto a farmi a pezzi.
Improvvisamente, si udì un tuono e Luca urlò a squarciagola che era arrivato il mio momento. Evitai destro e sinistro, provò ancora a colpirmi ma li schivai tutti e affondai un montante allo stomaco. Il tedesco sputò. I telecronisti erano allibiti. Combinazione da diverse angolazioni, sinistro destro, destro sinistro, l’aria era pesante, l’animale teutonico adesso era impaurito. Provò a chiudersi ma una forza incontrastata prendeva il sopravvento dentro di me. Affondai con un destro mentre fuori Dio dava sfogo della sua potenza con tuoni e fulmini. Il mio pugno gli passò in mezzo alle braccia, crollò a terra privo di sensi... «Sìììì! Stai giù! Stai giù!!!»
L’arbitro iniziò il conteggio, il pubblico tedesco era ammutolito. Gli italiani presenti, che erano sì e no duecento, saltavano di gioia sulle sedie scandendo in coro il mio nome. Il mio team era impazzito di felicità, sapevano che il “Mostro di Dusseldorf” non si sarebbe più rialzato. Accadde tutto così rapidamente, mi ritrovai abbracciato da non so quante persone e finalmente l’arbitro mi consegnò la cintura.
Ero il nuovo campione del mondo dei pesi medi.
Non sentivo più i dolori, anche se gli occhi si chiudevano e le ossa bruciavano, potevo sentire l’amore per questo sport, momenti indimenticabili. Piangevo e abbracciavo chiunque, finalmente avevo realizzato qualcosa di veramente importante. Dopo una lunga nottata di festeggiamenti tornammo a Roma.
Non mi aspettavo una simile accoglienza.
Fui accolto come un eroe nazionale, la stampa e la televisione non mi diedero tregua con interviste continue. Luca mi disse solo di godermi quel momento che tanto mi ero meritato. Una settimana dopo andammo a mangiare in un grande albergo, molto lussuoso. Non ero avvezzo a posti del genere ma presto ci avrei preso l’abitudine. Negli incontri successivi nessuno riuscì a strapparmi la cintura, ero ricco, piacevo alle donne, avevo macchine sportive, stavo bene ma non dormivo più la notte. Mi alzavo alle 3.00 e mi specchiavo, mi mancava qualcosa, ma che cosa? Feci un esame di coscienza e trovai la risposta.
Tornai a Napoli e iniziai a cercare mio fratello ma di lui nessuna traccia. Dove poteva essere finito? Chiesi indicazioni in giro, nessuno sapeva darmi una risposta fino a quando, passando in un piccolo vicolo dei quartieri spagnoli, vidi due malviventi che picchiavano un povero barbone.
«Lasciatelo stare, andatevene!!!»
I due si allontanarono e i miei occhi incredibilmente fissarono la persona che stavo cercando.
«Fratello!»
«Uh? Chi sei?»
«Sono Marco!»
«Chi cazzo è Marco?»
«Sono tuo fratello...»
«Madonna mia bella! Non ci posso credere, sei davvero tu?»
«Ti ho cercato ovunque!»
Aiutai mio fratello: era sporco, debole, senza soldi, molto probabilmente ancora drogato. Avevo passato gli ultimi anni a badare solo a me stesso, abbandonandolo, ora era arrivato il momento di aiutarlo. Lo portai via da quell’inferno, lo ospitai a casa mia. Da come mangiava sembrava che non toccasse cibo da settimane. Le braccia erano bucate, la faccia scavata, parlava poco e mi chiedeva dove ero stato e come mai possedevo una casa così grande e bella.
«Sono un pugile famoso.»
«Sei diventato un pugile?»
«Esatto, e sono il campione del mondo dei pesi medi,» dissi ridendo.
«Tu sei diventato un campione nella boxe?»
«Ho fatto molti sacrifici ma alla fine ce l’ho fatta.»
Il problema più grosso si presentò la notte: mio fratello iniziò a star male, il suo corpo richiedeva eroina. Non lo portai all’ospedale, chiamai Luca e un suo amico medico.
«Ora curi i drogati?»
«È mio fratello.»
«È un fallito, non è tuo fratello!»
«Lo devo aiutare, devo!»
Lo legai al letto, urlava e delirava. Dovevamo togliergli tutto quello schifo che aveva in corpo. Passarono giorni lunghissimi prima che le cose migliorassero ma alla fine, come per miracolo, si liberò dal mostro della droga. Dopo quei momenti terribili trascinai mio fratello nel mondo della boxe, mi seguiva e mi aiutava. Luca aveva imparato ad apprezzarlo, perché anche lui aveva sconfitto un mostro, molto più temibile di quello che io avevo messo al tappeto a Berlino.
Entrambi mi furono vicini nel mio ultimo incontro, che si svolse a Napoli.
Persi il titolo.
Il mio avversario, Phill Jopeh, un pugile americano, colpì con una violenza inaudita il mio petto, provocandomi un arresto cardiaco.
Ricordo che ero disteso sul ring, la gente attorno completamente nel panico. Non riuscivo a parlare, riuscii solo a stringere debolmente la mano a mio fratello guardandolo negli occhi.
Percorsi un lungo corridoio su una barella, con me Luca e mio fratello.
Chiusi gli occhi e quando li riaprii vidi le nuvole, delle meravigliose, fantastiche, dolci nuvole napoletane. Sorrisi e le raggiunsi.

2 commenti:

  1. Ottimo Post! Visto questo programma su Cielo? Per sistemare le controversie in ufficio... E' molto divertente https://www.facebook.com/ideacreativa.it/videos/vb.44762806379/10153678680531380/

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