lunedì 24 agosto 2015

Sta Luigi Re di Francia con tre pulci sulla pancia


Sta Luigi Re di Francia con tre pulci sulla pancia

Maurizio De Filippis

Come ha scritto Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio anch’io, come gran parte degli italiani, avrei voluto fare il calciatore. In effetti, da piccolo “giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo. Durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso sui campetti del mio paese.”1 Pur non avendo abbastanza talento per giocare a pallone in una squadra professionistica, mi sono però sempre cimentato in interminabili confronti calcistici disputati su ogni tipo di superficie disponibile: tratturi brulli e sassosi collocati alla periferia dell’impero calcistico milanese, nastri d’asfalto resi roventi dal solleone, arene improvvisate al largo dei bastioni di Quarto Oggiaro. Lungi dal considerarmi “triste solitario y final”2, ho dato il meglio di me con l’avvento, nei primi anni novanta del XX secolo, dei terreni in sintetico: goleade memorabili nei peggiori tornei da bar dell’Hinterland milanese, incontri calcistici degenerati in ludi gladiatori durante innominabili tornei aziendali, sfide estemporanee disputatesi, presso il centro sportivo Dal Lurido – contro Selecciones de fútbol sudamericane o équipes maghrebine per guadagnarsi, sul campo, la conferma definitiva del diritto di prenotazione acquisito telefonicamente. Prima di appendere definitivamente “le mie amate Puma al chiodo”, ho trascorso sui rettangoli da gioco giornate indimenticabili affrontando e sgominando, insieme alla mia Gang, la “meglio gioventù” di Arese, Bollate e paesi limitrofi in una sorta di Mundialito itinerante.3 Tra le tante, ricordo in particolare due gare disputate in trasferta contro esuli cubani di Calle Ocho e pieds noirs algerini a Miami Beach e a Marseille (“coup de boule à la Plage du Prado”), entrambe finite a mazzate. Naturalmente, non si trattava di trasferte calcistiche vere e proprie, ma di partitelle disputate on the beach contro delle rappresentative turistiche locali “mixate” con elementi indigeni. In anticipo sulla globalizzazione, tali confronti “glocal (global - local)” si tenevano, al calare delle prime ombre della sera, direttamente sulla spiaggia durante lo spring-break legato ai nostri studi universitari o nel bel mezzo delle vacanze estive.


Poi, all’improvviso, dopo una serata trascorsa al Cafè des platans di L’Île-Rousse tracannando pastis perroquet 4 e cacahuètes in compagnia di un gruppo di legionari di Calvi e di alcuni giocatori di beach soccer còrsi impegnati in evoluzioni canore mariachi tipo “Le dernier des bandits”,5 ecco apparirmi in sogno uno degli idoli della mia gioventù calcistica: “El Tiburón” Oscar Alberto Dertycia, centravanti argentino, predecessore di Batistuta e loser di successo alla fine degli anni ottanta del secolo scorso.6 Mi trovavo in piena fase REM7 e stavo percorrendo il lungo tunnel che separa gli spogliatoi de La Bombonera dall’ingresso in campo.8 Proprio nell’istante in cui mi accingevo a fare la mia entrata trionfale nell’arena gremita di tifosi del Boca Juniors, mi apparve “El Tiburon” con indosso la casacca gigliata della Fiorentina. Con un sorriso sghembo stampato in volto mi si accostò sventolando l’indice contorto a mo’ di caduceo, quasi fosse un novello Asclepio.9 Una volta avvicinatosi ad un palmo dal mio naso, inclinò el cabezón e mi sussurrò all’orecchio: «La pianta siede e una la palpi!»
Devo confessare che, al momento, non compresi appieno cosa volesse dire (“Qué voy a hacer? Je ne sais pas”) però una volta sveglio (“Qué hora son, mi corazón?”), dopo aver fatto colazione leggendo alcune pagine di Pugni chiusi e cerchi olimpici, cominciai a riflettere sul significato recondito di quella frase.10 Accesi il calumet della pace (“quand on aime plus le tabac fuma la pipa”) e la radio a transistor che tenevo sulla mensola della cucina e mi sintonizzai su Radio Massilia Sound System, un’emittente locale specializzata in farandoles provençales e sound latinoamericano degli anni cinquanta. Ascoltando La Canción del Cola-Cao11 provai ad anagrammare la frase e ciò che saltò fuori fu stupefacente: “Piantala sei una palla al piede!”. Decodificato l’arcano (giocare o allenare, questo è il dilemma) e condiviso il messaggio criptato con la cerchia dei fedelissimi, giunsi alla certezza di aver raggiunto, calcisticamente parlando, il Satori12.
Decisi allora, “Om Mami Padme Hūm”, “La Gioia è nel Loto”, di abbracciare il cambiamento, come suggeritomi da Dertycia, e di incamminarmi sulla strada che porta allo Shibumi.13 Decisi, cioè, di ritirarmi e di cimentarmi, in tutta modestia, come allenatore di una piccola squadra di quartiere del mio paese. L’idea di fondo era quella di avvalermi, per le strategie e gli schemi di gioco, delle mie conoscenze del Go, del buddismo zen e delle arti marziali, in particolare del Ju jitsu. 14
Il Ju jitsu è un’arte marziale giapponese il cui nome deriva da jū (“flessibile”, “cedevole”) e “jutsu” (“arte”, “tecnica”). Uno dei suoi principi base consiste nel fatto che grazie allo stahara15 “il morbido vince il duro” (“Hey yo shin kore do”). Nel Ju jitsu, infatti, “la forza della quale si necessita proviene dall’avversario. Più si cerca di colpire forte, maggiore sarà la forza che si ritorcerà contro. Il principio, quindi, sta nell’applicare una determinata tecnica proprio nell’ultimo istante dell’attacco subito, con cedevolezza, in modo che l’avversario non si accorga di una difesa e trovi, davanti a sé, il vuoto.”16
Nella relazione “Uke-Tori”, ad esempio, Uke è colui che attacca mentre Tori esegue la tecnica adatta per neutralizzarne l’impeto e partire poi al contrattacco (in pratica, quando Uke tira, Tori spinge e viceversa).
La “rosa” delle cebollitas (pulcini)17 che mi era stata affidata apparteneva alla Solea ed era costituita da giocatori (pre-Bar mitzvah) provenienti da uno dei quartieri più periferici della città. La Solea era una società calcistica nata nella seconda metà del XX secolo come risposta al crescente disagio giovanile serpeggiante tra i ragazzi “difficili” del quartiere di Cassina de’ Girasoli. I poulains che avevo a disposizione erano quanto di più eterogeneo si possa immaginare. Di estrazione sociale alquanto discutibile, più che dei calciatori in erba, assomigliavano alla “Compagnia dei Celestini” descritta da Stefano Benni.18 Indisciplinati, vivaci ed irrequieti sembravano più adatti a praticare la pallastrada che il football vero e proprio. Esperti in artifici quali “la gambarola, il ganascio, il pestone, il costolino, il raspasega, il toccaballe, il calcinculo, il cianchetto e gli sgambetti”, mal sopportavano la mia presenza.19 Ricordo che, una volta, durante un esercizio chiesi a Edo “boychick” di colpire, al termine dell’esercizio, la palla di collo pieno. Edo, che sfoggiava per l’occasione una nuova acconciatura da mohicano metropolitano, mi fissò attonito per alcuni secondi grattandosi la cocuzza prima di scoppiare a ridere per via di un involontario calembour: «Ma come faccio a colpire il pallone di collo se la palla ce l’ho tra i piedi?» In un’altra occasione, contravvenendo alle mie indicazioni (“Mi raccomando, giochiamo a due tocchi”), vidi Vincent “saltare” tre volte un compagno stile Garrincha, scivolare, rialzarsi, scuotersi di dosso la polvere e contemporaneamente effettuare (¡Olé!) un tunnel circense al difensore inferocito, neanche fosse un torero alla corrida.
Con il trascorrere del tempo, però, iniziammo a conoscerci. I tentativi di ammutinamento (“Mister, se le cose stanno così noi oggi non ci alleniamo proprio”), le evasioni di massa dagli spogliatoi durante le lezioni in pillole di tattica e filosofia zen, divennero man mano sempre più sporadici. Gli sberleffi si alternavano ora a piccole prodezze tecniche («Mister,» mi apostrofava Gabo detto “El Gato”, per via della sua agilità, «guardi e impari come si fa una vera rabona!») compiute sul campo dagli elementi più rappresentativi della squadra che risultava composta da Lollo, Gabo, Fede detto “El Buitre”, Rocky, Mollys, Chicco, Karre, Boni, Dani F., Brian detto “Sinbad”, Kama, Esteban Carugati, l’idolo delle fan della Solea, Edo detto “Cochise”, “Lucky” Luke, Lele, Vincent e Sophie, la nostra “portiera”, “le bionde trecce e gli occhi azzurri e poi /
le sue calzette rosse”.20 Un gruppo di “picari” anarchici, insomma, ricco però di talento e personalità.
I tre niños Lollo, Gabo e Fede erano quelli che, a mio giudizio, tecnicamente si distinguevano maggiormente per lo stile di gioco e per l’abilità con cui si liberavano degli avversari.21 Lollo, detto “El Gringo”, per via della zazzera bionda e “los ojos azules”, era un centromediano vecchio stampo, alla Luisito Monti tanto per intenderci, geometrico ed elegante ma capace di randellare gli avversari senza troppi riguardi. Gabo, invece, dotato di una sorprendente reattività neuro-muscolare e di riflessi fulminei, aveva una ferocia agonistica senza pari (insomma, un vero bimbo-Alpha). Fede, il centravanti dai riccioli d’oro, somigliava di profilo ad un delicato putto policromo del Settecento ma, per la rapacità sotto porta, sembrava piuttosto il gemello astrale (come avrebbe detto Madame Blavatsky) di Pippo Inzaghi o Emilio Butragueño, uno dei più prolifici bomber di tutti i tempi della Nazionale iberica. Vi erano poi Brian e Karre, centrali brontoloni dal fisico possente e dal tiro formidabile; Chicco che correva talmente veloce da sorpassare di slancio anche la palla; “Lucky” Luke dalla progressione inarrestabile e Boni la “farfalla gialloverde”, ala destra vecchia maniera con la “fissa” del doppio passo alla Biavati e il dribbling alla Claudio Sala.
Più che allenarli sul piano tecnico, occorreva cementarne il senso di appartenenza, limandone le spigolosità caratteriali e convogliando l’energia vitale interiore del gruppo (Qi), sino ad allora dispersa in mille rivoli, verso un obiettivo comune. Per raggiungere questo risultato mi avvalsi di alcuni precetti zen: “In tutte le religioni orientali viene attribuito un grande valore alla dottrina sanscrita del tat tvam osi, “tu sei ciò”, secondo la quale quel che si pensa di essere e quel che si pensa di percepire sono tutt’uno. Capire pienamente questa assenza di divisione equivale a raggiungere l’illuminazione. La logica presuppone una separazione del soggetto dall’oggetto; pertanto la logica non è la saggezza ultima. Il modo migliore di cancellare l’illusione della separazione del soggetto dall’oggetto è l’eliminazione dell’attività fisica, mentale ed emotiva. A questo scopo ci sono molte discipline. Una delle più importanti è la disciplina sanscrita del dhyàna, che in cinese si è deformata in chan e in giapponese in zen.” 22
 Naturalmente, poiché l’oggetto del contendere era un palla di cuoio di forma sferica, non è che potevamo permetterci di andare in campo immersi in un’immobile meditazione contemplativa, decisi perciò di adottare anche altri elementi filosofici orientali, in primis quelli del Go e delle arti marziali, miscelandoli con i rudimenti calcistici del calcio all’italiana di Rocco e Trapattoni.23
 La preparazione precampionato volgeva ormai al termine quando, durante una seduta di allenamento interrotta da un feroce acquazzone, mi trincerai con i miei miniatleti nello spogliatoi, et voilà, tirai fuori dalla mia borsa di pelle della Boxeur de rues a lavagnetta nera dotata di gessetto e cancellino e cominciai a scrivere tra crescenti mormorii di disapprovazione.
«Che palle mister, la lavagnetta noooo!» esclamò Brian. «Ragazzi, per favore fate silenzio e ascoltate,» dissi alzando il tono di voce. «Come ho avuto già occasione di dirvi, lo svolgimento di una partita di Go presenta alcune somiglianze con il gioco del calcio. Nella fase iniziale, chiamata Fuseki, di ogni incontro, il gioco si sviluppa per tutto il goban. Si cerca cioè di prendere il controllo della scacchiera cercando di occupare le porzioni di campo lasciate libere dagli avversari, proprio come sul campo da football. Una volta che si è usciti indenni, Sabaki, in modo rapido da una situazione di gioco sfavorevole, occorre uscire dalla fase di stallo, Seki, sacrificando, Uttagae, se necessario, un pezzo dello schieramento per poi scatenare un attacco a tutto campo, Shicho, con lo scopo di catturare i pezzi del contendente, ottenere un vantaggio decisivo e chiudere la partita consentendo alle Gru di tornare al proprio nido,  Tsuru no Sugomori. È tutto chiaro, ci sono domande?»
Improvvisamente, quando tutti stavano per alzarsi scuotendo sconsolati los cabezones, da una delle panche vicino alle docce si udì la voce squillante di Chicco: «Veramente mister io non c’ho capito una mazza... con tutte ’sti ccose ci facisti ’na testa quanto un palluni!»
«D’accordo,» dissi sospirando, «vedrò di spiegarmi meglio. Qin in cinese significa “afferrare” nello stesso modo in cui un’aquila cattura un coniglio, Na significa “trattenere e controllare”. Quindi Qin Na, si può tradurre come “afferrare e controllare”. Il Qin Na, i cui principi, studiati dai monaci Shaolin, costituiscono i fondamenti di gran parte delle arti marziali cinesi, include però anche tecniche che utilizzano pressioni e percussioni. Quindi Chicco, quando applicate il Qin Na, oltre alla potenza muscolare, Li, ricordatevi di esercitare anche il vostro Yi, la mente. Dovete concentrarvi e mettere in relazione tra loro mente e tecnica sforzandovi di convogliare la vostra energia interna a supporto della tecnica che intendete utilizzare. L’addestramento riguarda, pertanto, tanto il Qi, l’energia interna, quanto lo Yi, la concentrazione della mente, e lo Shen, lo spirito. Avete afferrato il concetto?»24
Poiché nel frattempo aveva smesso di piovere, pensai fosse giunto il momento di riprendere gli allenamenti. Prima di uscire dallo spogliatoio mi guardai attorno e, a parte Chicco che sembrava essersi addormentato profondamente durante la spiegazione e Mollys che continuava a lanciare una pallina da tennis contro il muro, notai negli occhi degli altri una strana luce. Si fecero avanti, aprendosi la strada tra sedie e panche, Lollo, Gabo e Fede con sul volto un’espressione tipo Holly, Benji e Shingo Tamai nel manga Tutto il calcio minuto per minuto. Si fermarono proprio davanti a me e rivolgendo una rapida occhiata complice ai compagni mi domandarono: «Ok mister, va bene il Qi, va bene il Ju jitsu e passi pure per la filosofia del Quartiere Zen, ma quando affronteremo gli avversari in campo come dobbiamo comportarci? Che facciamo se ci attaccano? Li riempiamo di mazzate?»
Per rispondere a questi quesiti specialistici, dovetti fare appello a tutta la mia energia interiore e, mentre mi apprestavo a replicare, continuai a ripetere mentalmente il mantra “respira e conserva il tuo Qi”: «Bene, statemi tutti a sentire, anche tu Chicco e tu Mollys smetti di tirare la pallina contro il muro. Prima degli allenamenti, ho ricevuto dai dirigenti della società, la premiata ditta George & Batigol, il calendario della Federazione. Bene. Il campionato inizierà la prossima settimana. La prima squadra che incontreremo sarà la Pro Valetudo...»
Nello spogliatoio scese un silenzio assoluto, rotto solo dallo scricchiolio delle panche e delle sedie e da qualche imprecazione soffocata.
La Pro Valetudo costituiva, in effetti, il team più titolato del territorio ed era celebre per la gestione manageriale, per l’aggressiva “politica” di reclutamento dei giocatori strappati ancora “in fasce” dagli altri club della zona e per la complessa organizzazione di gioco stile “Barça”: il celebre giro palla costituito da un’ossessiva ragnatela di passaggi.
«Per tornare a noi,» dissi, interrompendo l’imbarazzante minuto di raccoglimento, «tutti voi conoscete la forza della Pro Valetudo e in particolare l’abilità di Yuma e Axel nelle tecniche acrobatiche quali lo Skylab Hurricane, il twin shot e la Triangolazione Aerea. Quindi, per ostacolarli, dovremo adottare degli accorgimenti particolari. Carugati, Karre e Brian, venite qui!»25
I tre centrali difensivi si alzarono ciondolanti e, quasi fossero dei condannati al patibolo, trascinarono stancamente i piedi e mi raggiunsero.
«Ascoltatemi bene, poiché la priorità è quella di bloccare i loro due migliori giocatori, faremo così: in primis Carugati si prenderà cura di Yuma e non lo mollerà neanche se dovesse andare a pisciare, voi altri due entrate in campo e qualora Axel dovesse affrontarvi, colpite tutto quello che si muove. Poi, se per caso, prendete anche la palla, pazienza,» affermai parafrasando il grande Nereo Rocco.
«Non è tutto,» aggiunsi. «Se siete in difficoltà, non cercate di scartare ma buttate pure la palla a lato, in attesa che arrivino a darvi manforte i vostri compagni. Sono stato chiaro? Bene! Per quanto riguarda i centrocampisti, voglio che rimaniate allineati e coperti, Shizen tai, posizione di difesa dell’aggredito, pronti a fare pressing, Dim Mak, pressione dei meridiani, sulle fonti del gioco avversario rallentando così il flusso di Qi generato da Axel, il playmaker avversario. Una volta che gli avversari saranno divisi, Fen Jin, dividere muscoli e tendini, e sbilanciati in avanti, Gabo, Luke o Kama recupereranno il pallone e lo daranno a Lollo che servirà Chicco o Boni sulle fasce laterali non presidiate, pressione sulle cavità vitali o Dian Xue. Rocky e Vinnie, nel frattempo, si terranno pronti a ripartire in velocità per sfruttare i cross provenienti dai lati del campo. In alternativa, Lollo lancerà Fede che avanzerà centralmente tra le linee dello schieramento difensivo Du Mai, vaso governatore, dove yin e yang mutano il loro corso. Una volta giunto in prossimità del coperchio dello Spirito celeste o Tien Ling Gai, tirerà una sabongia fortissima in porta, Da Xue Fa, percussione delle cavità. Ci sono domande? No? Bene, per oggi può bastare.»
In attesa del nostro esordio stagionale, mi resi conto che quella che, inizialmente mi era parsa un’armata brancaleone, ora sembrava, se non una vera squadra, qualcosa che ci andava vicino. Non che ora ci fosse una gran disciplina ma, perlomeno, erano cessate le scazzottature e lo scambio di sguardi torvi tra gli appartenenti ai vari clan. L’unico evento che in quella settimana fatale dovetti censurare ebbe origine da un episodio avvenuto negli spogliatoi al termine di un intenso allenamento. Dopo la doccia, uno dei nostri giocatori aveva raccolto da terra una monetina. Credendo che fosse del compagno che si trovava di fronte, fece per restituirgliela. Quest’ultimo, che in quel momento si trovava chinato di spalle, voltò la testa all’indietro proprio nell’istante in cui il collega si stava rialzando con il braccio teso per porgergli l’obolo. Presupponendo che questi stesse tentando surrettiziamente di inserire, per usare un eufemismo, lo “spicciolo nel juke-box”, reagì piuttosto rudemente (“Ma che minchia fai?”) atterrando il malcapitato con un perfetto uppercut al mento. Fortunatamente, dopo le spiegazioni di rito e le risate collettive, la questione finì con un abbraccio goliardico (rigorosamente in accappatoio) e una bevuta di spuma nera al bar del centro sportivo.
Con il passare dei giorni, l’attesa e la tensione per la “prima” di campionato divennero quasi insostenibili sino a che non arrivò il momento del tanto temuto debutto. Una volta entrati nello spogliatoio adiacente al campo da gioco, catechizzai a lungo i miei “tigrotti” sull’importanza della partita insistendo sul pressing (al grido di Taca la bala!) e rispolverando, al termine della mia filippica, il generale Sun Tzu: «Ragazzi, mi raccomando siate umili, in campo simulate inferiorità e incoraggiate l’arroganza degli avversari. Buona fortuna, Mazel tov!»26
Non appena l’arbitro fischiò l’inizio della partita, mi avvidi subito che la disposizione tattica e le geometrie di gioco della Pro Valetudo erano superiori alle nostre. Noi andavamo avanti a folate (tipo palla lunga e pedalare), sfruttando l’abilità tecnica dei singoli e la velocità di Boni e Chicco sulle fasce laterali, mentre la compagine avversaria cercava di sviluppare un gioco più organico e avvolgente. In particolare, l’impact factor di Yuma e Axel sulla partita rischiava di far pendere la bilancia del confronto dalla parte dei nostri contendenti. Nel primo quarto di gioco, Yuma sfiorò il gol in più di un’occasione impegnando Sophie “Beausoleil” con alcune conclusioni ravvicinate e con una giravolta “spaziale” da fuori area che colpì, a portiere battuto, la base del palo. Fortunatamente Carugati, man mano che si avvicinava la fine del primo tempo, riuscì ad arginare con le buone (e qualche volta con le cattive) il centravanti della Pro.
La prima frazione di gioco si concluse con un netto predominio della squadra ospite, sia come possesso palla, sia come numero di conclusioni. Mi stavo avviando con la mia squadra negli spogliatoi quando incrociai, sur la pelouse, l’allenatore della Pro Valetudo, il sempre imbronciato “Mr. Brown”. Non appena fummo vicini, lo salutai cordialmente con un «Ciao, bella partita eh?» Con indosso il solito cappellino da baseball calato sugli occhi egli si fermò un istante, mi degnò di uno sguardo gelido e mi apostrofò con un poco amichevole: «Ma tu a chi si figlio? Io non ti canuscio!» Poiché, sinceramente, non sapevo cosa rispondere, feci finta di non aver capito e, scuotendo la testa con fare interrogativo, mi diressi prontamente negli spogliatoi mormorando, quel tanto che bastava per farmi sentire: «Carneade! Chi era costui?»
Analizzando la partita con i miei secondi Renatinho e Paquita mi resi conto che, in effetti, nei primi quarantacinque minuti, noi avevamo oltrepassato la linea di centrocampo solo quattro o cinque volte senza mai impensierire realmente la squadra avversaria. A tale proposito, Renatinho mi diede un prezioso suggerimento: «Mister, noi saremo carenti davanti ma loro sono scoperti dietro.» Non curandomi delle allusioni implicite, ribattei che se l’attacco era risultato deficitario, la difesa aveva però, nel complesso, retto splendidamente grazie alla grinta e al sacrificio dei singoli (della serie “i  Leoni di Highbury ci fanno una pippa”). Convenni comunque sulla necessità di sparigliare le carte e, poiché il nostro modulo di gioco (4-2-3-1) si era dimostrato efficace soprattutto in fase difensiva, decisi di far entrare una seconda punta (l’unica che avevo a disposizione, oltre a Fede). Nel contempo radunai tutti i miei atleti e dissi come la pensavo ispirandomi (“Absit iniuria verbo”) al coach Al Pacino nel film “Ogni maledetta domenica” di Oliver Stone:

«Non so cosa dirvi davvero...
Tre minuti alla nostra più difficile sfida professionale.
Tutto si decide oggi.
Ora, noi o risorgiamo come squadra... o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, fino alla disfatta.
Siamo all’inferno adesso, signori miei.
Credetemi.
E possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi... oppure aprirci la strada lottando verso la luce.
Io però, non posso farlo per voi. Sono troppo vecchio.
Quello che posso dirvi però,» continuai, «è che nel football, così come nella vita è spesso una questione di centimetri,27 perché in entrambi questi giochi il margine di errore è ridottissimo...
Mezzo passo fatto un po’ in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate.
Mezzo secondo troppo veloci o troppo lenti e mancate la presa. Ma i centimetri che ci servono sono dappertutto, sono intorno a noi. Ce ne sono in ogni break della partita, ad ogni minuto, ad ogni secondo.
In questa squadra si combatte per un centimetro.
Perciò o noi risorgiamo adesso, come collettivo... o saremo annientati individualmente.
È il football, ragazzi.
È tutto qui.»

Vedendo gli sguardi sbigottiti dei miei, decisi di continuare a “caricare loro la pipa” citando, a conclusione della recita, il “Vecio”: «Ragazzi, prima di entrare in campo ricordatevi che loro sono più forti sulla carta però si gioca sull’erba!»
Nel prosieguo dell’intervallo Lele si riscaldò a lungo e alla ripresa del gioco fece il suo ingresso in campo accompagnato da una bordata di fischi degli ultras antagonisti. Nonostante la sostituzione e il cambio di modulo, il nostro match stentava comunque a decollare. Il giro palla dei rivali però non produceva più, come nel primo tempo, delle situazioni pericolose ma solo uno sterile predominio territoriale. Tra conclusioni da lontano ribattute dai difensori, colpi di stinco, nuca, ginocchio, rinvii alla “viva il parroco!” e qualche rara sortita da parte della mia “pandilla”, l’incontro stava scivolando, in modo ineluttabile, verso un (tutto sommato accettabile) pareggio a reti inviolate.
All’improvviso, giunti quasi allo scadere dei tempi regolamentari, si verificò un evento straordinario. Un lungo fraseggio degli ospiti venne interrotto da un’entrata al limite del regolamento da Gabo che, eludendo un tignoso tentativo di rimonta, riuscì a servire Luke che innescò Lollo in una rapida ripartenza (contropiede per i tangueros della vecchia guardia). Dopo aver percorso alcuni metri senza trovare opposizione, quest’ultimo effettuò con un toque real, un lancio largo verso Boni posizionato a destra dello schieramento avversario. Una volta ricevuto il pallone, la nostra ala destra sgusciò elegantemente in mezzo a due terzini, “mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento.”28 A pochi passi dall’ingresso in area di rigore, venne però falciato senza pietà da Axel. Mancavano ormai solo una manciata di minuti alla fine dell’incontro e la punizione dal limite concessa dall’arbitro scatenò una rissa furibonda. Ad accendere la miccia, calciando proditoriamente la palla in tribuna, fu un giocatore della Valetudo, un certo Saronni, rosso di capelli, celebre per i suoi robusti tackles e per l’accertata attitudine al placcaggio. Malauguratamente, insieme al pallone volò via anche la sua scarpa che, per colmo di sfiga, terminò il proprio tragitto infrangendosi ncòppa alla zucca di uno dei nostri. Inutile dire che la prodezza “atletica” del “rosso” non passò inosservata. Nello stesso istante in cui Rocky veniva soccorso e sommariamente medicato, si scatenò un caos primordiale. Brian, quasi fosse uno dei sette samurai di Toshiro Mifune, cominciò a strattonare il malcapitato avversario provocando l’intervento, in rapida successione, dell’arbitro, del mister della Pro Valetudo e dei suoi urban ninjas. In una specie di reazione a catena, tipo fissione nucleare, si precipitarono baldanzosi in campo dirigenti, massaggiatori e giocatori di riserva della Solea e della Pro, tutti pronti a farsi giustizia da sé. Tra urla, strepiti e schiamazzi, la bagarre rischiava di trasformarsi in uno di quei guazzabugli medioevali d’epoca Sengoku diretti al cine da Akira Kurosawa. Saronni, intanto, privo di uno scarpino, sembrava Kagemusha disarcionato: urlava e si rotolava a terra come un tarantolato della serie “l’urlo di Chen terrorizza anche Affori e la Bovisa”. Qua e là si accendevano delle piccole colluttazioni tra i vari contendenti condite da una babele di insulti irriferibili in giargianese, patois e pidgin (“you’re boocoo dinky dau!”). Mentre Gabo si sottraeva agevolmente ad un tentativo di presa ostile alle braccia (“Ryo te dori”), si moltiplicavano scontri e scazzottature tra i vari Kung Fu Panda e Karate Kids sino a che l’intervento autorevole del sensei in giacchetta nera li fece cessare. Quest’ultimo, su delazione del segnalinee, espulse Brian per condotta scorretta proprio nel momento in cui i tifosi delle due fazioni dalla tribuna scoperta cominciarono ad intonare cori e canti di scherno all’indirizzo dei giocatori e della torcida rivale. Nello specifico, la sparuta rappresentanza della Valetudo appariva scatenata nei confronti del giudice di gara e dei suoi collaboratori verso cui erano diretti “complimenti” in argot vernacolare che chiamavano in causa gli antenati della terna arbitrale (“all’anima di chi t’è muort e stramuort!”, tuonava senza ritegno dalla platea una “nobildonna” della squadra ospite, subito rimbeccata da un sonoro “statte citta si nò te stampagnu a nanzi lu parite usu figurina dellu milan!”, proveniente dall’altro lato della barricata). In una sorta di “Minitalia del turpiloquio ideale” le imprecazioni (“Ma va da via il cù, ciaparàtt!”) e le invettive (“Va in mona!”) raggiunsero l’acme quando “Sinbad” uscì dal campo mostrando ai supporter avversari il pugno chiuso seguito dall’esclamazione «L’orgoglio dell’indio non sta dormendo. ¡Que viva Zapataaa!»29
Prima che a qualcuno venisse in mente di chiamare i Caramba, il referee decise che la partita poteva ricominciare con la punizione dal limite assegnata alla nostra équipe. Su tutto il perimetro di gioco e tra le bancarelle improvvisate grondanti “mamacitas, merguez y cervezas (uduu de fritüüra de pèss e de piza de purtà via)”, calò un silenzio greve, quasi irreale.30 Intorno alla palla immobile, “in mezzo al campo da calcio avvolto dalla polvere”, presero posto Gabo, Lollo e Fede, tutti e tre smaniosi di battere subito a rete.31 L’arbitro decretò però che si trattava di un “fallo” a due e, nonostante le proteste dei nostri, si dovette attendere la composizione della barriera e il fischio del giudice di gara.
Poiché non avevamo studiato nessuno schema specifico per le palle inattive, mi rivolsi a Mollys chiedendogli di farmi sapere in che modo i tre caballeros avevano intenzione di sfruttare questa importante opportunità. Dopo qualche secondo, Mollys tornò trotterellando verso la panchina e candidamente mi disse: «Mister, mi hanno detto che calceranno seguendo lo schema delle tre pulci del Re di Francia, una cosa che si sono inventati al momento.» Non sapendo cosa ribattere domandai «E cioè, che significa?» Con un gesto eloquente, Mollys allargò sconsolato le braccia e allontanandosi per riprendere la posizione si lasciò sfuggire canticchiando «Una salta, l’altra vola, l’altra spara la pistola...»
Il primo a partire fu Fede che, correndo, puntò deciso verso la palla come se dovesse calciarla con veemenza. All’ultimo istante, proprio quando il contatto sembrava inevitabile, saltò a piè pari la sfera di cuoio, consentendo a Lollo, che seguiva dappresso, di alzare con la punta del piede la biglia facendola librare in aria, quel tanto che bastava per permettere a “El Gato” di “sparare” a rete una cannonata.32 La palla assunse una strana traiettoria a palombella e schizzò alta, verso il cielo di Cassina de’ Girasoli, per poi planare violentemente a sinistra verso l’angolo alto della porta difesa da Gigi, il portiere della squadra ospite. Quest’ultimo, con un prodigioso colpo di reni, riuscì a deviare miracolosamente il pallone destinato ad insaccarsi sotto l’incrocio. Ma evidentemente Gigi non si poteva annoverare tra i “favoriti della fortuna” perché non poté evitare che, sulla ribattuta, la compiacente Eupalla, divinità calcistica cara a Gianni Brera, facesse carambolare dolcemente la palla magica prima sulla spalla di Boni e poi in fondo alla rete. Malgrado le reiterate contestazioni per un presunto fallo di mano commesso dal nostro goleador andassero per le lunghe, le scene di esultanza e di giubilo dei giocatori, dei tifosi e dei dirigenti del “popolo” soleano nei confronti del match winner ebbero la meglio, inducendo l’arbitro a fischiare la fine dell’incontro allo scoccare del 90° minuto.
I cori da stadio (lo scontato “chi non salta della Valetudo è”, seguito dalla celeberrima “Daje de tacco e daje de punta quant’è bbona la sora Assunta... è da paese... je sto a ’mparà la lotta giapponese”), si protrassero anche negli spogliatoi, nonostante mi prodigassi nel vano tentativo di placare l’euforia e lo spirito goliardico dei miei ragazzi. Ricordo che, ad un certo punto, mi feci prendere dall’entusiasmo e mi unii, senza più remore, ai festeggiamenti immergendomi nella bolgia dantesca. Prima di ricevere un gavettone “da urlo” da parte di Mollys e Brian, feci in tempo però ad udire Lollo, Gabo e Fede recitare, in bilico su una consunta panca risalente ai tempi dell’Arca di Noè, una filastrocca intitolata Il Re fannullone:

Re Luigi sta in panciolle
sopra un letto con le molle;
sta in panciolle Re Luigi:
guarda crescere i barbigi.
Sta Luigi, Re di Francia,
con tre pulci sulla pancia:
una salta e l’altra vola,
l’altra spara la pistola...

Con i vestiti completamente zuppi, guadagnai l’uscita degli spogliatoi per cambiarmi d’abito e, dopo aver percorso un breve tratto di corridoio, mi imbattei nel volto scurissimo del trainer della Valetudo, accompagnato da Yuma e Axel. Dopo aver fatto i complimenti ai due ragazzi autori, a mio parere, di una partita maiuscola, per correttezza mi accostai al loro allenatore tendendogli la destra per salutarlo. Da sotto il berretto, lo “Shogun” mi scoccò un’occhiata glaciale e, dopo avermi stretto vigorosamente la mano, lo sentii dire: «U Signuri manda ’u pani a cu nun havi denti... vi è andata bene, anzi vi è andata proprio di culo. La prossima non finirà così...» Grazie al cielo, questa volta fui pronto alla replica e prima di voltarmi e andarmene, feci un leggero inchino e risposi: «La prossima volta si vedrà. Non è detto però che toccherà agli schemi il compito di salvare il mondo. È più facile che sia un tiro molto mancino a riscattare il calcio e la nostra vita. Nel frattempo, faccia come me: abbracci il cambiamento. Les gens que l’on comprend... ce sont eux que l’on domine». 33
Dopo essermi infilato in un’altra tuta, tornai dai ragazzi che mi attendevano fuori dagli spogliatoi e proposi loro di recarci per cena in un raffinato japanese restaurant situato lungo la Comasina. Nonostante qualche tentativo di blanda opposizione da parte dei soliti irriducibili che preferivano la Trattoria Kalifornia di Niguarda, prenotammo al Tempura una sala riservata e ci recammo in corteo ad occupare il nostro angolo privé dotato di tatami, cuscini e zaisu (le sedie rasoterra del Sol levante), con la ferma intenzione di assaporare i piatti della cucina tradizionale giapponese.
Per tutta la serata, pietanze come il nikuyaga (stufato di carne con patate) si alternarono alla carne di manzo di Kobe e ad altre portate tradizionali come l’alga hijiki (che pare nasconda il segreto della rilucente chioma dei nipponici); piatti ricercati come il sukiyaki (i cui ingredienti vengono cotti in un tegame contenente un delizioso consommé) si avvicendarono con il sushi, il sashimi e la tempura, il tutto innaffiato dal saké per gli adulti e dalla bancha (tè) per i ragazzi. Per concludere il pasto, insieme a liquori quali l’Umeshu e l’Awamori (“c’est mieux le pastis!”), ordinammo il dorayaki (ripieno di crema di fagioli azuki).
Al termine della cena, proprio mentre mi accingevo a regolare il conto, fece la sua comparsa un ospite “inatteso”. Da un borsone utilizzato per gli allenamenti fece capolino un pallone di cuoio a spicchi bianco-neri che cominciò a rotolare per la salle à manger del ristorante, sino a che, provvidenzialmente, tutti i ragazzi si recarono in cortile per disputare una partitella improvvisata. Dopo qualche minuto, mi affacciai dalla porta del locale per dare un’occhiata ai miei “vagabondi del Dharma”. Vedendo Chicco molto accaldato lo chiamai e gli dissi se voleva un paio di bottigliette d’acqua. Chicco mi rivolse uno sguardo stralunato e mi rispose: «No, grazie mister, i pali della porta già ce li abbiamo.» Stavo per tirargli una centra, ma mi trattenni (respira e conserva il tuo Qi) e decisi, prima di andarmene a casa, di dargli un’altra possibilità: «Senti, come ti è sembrata la cena?» Con la chiara intenzione di ricongiungersi al più presto con la “banda”, Chicco tornò a guardarmi e a voce bassissima lo udii bisbigliare: «mister, quanto ci valìa un piatto di pasta chi milinciani!» Lo squadrai sconsolato e gli dissi: «Hai ragione Chicco, mi sa che questa volta hai proprio ragione. Ci vediamo martedì agli allenamenti. Sayonara.»

1. E. Galeano, El fútbol a sol y sombra y otros escritos, Cordoba, Ediciones P/L, 2002, p.5. Per ciò che concerne il rapporto tra football e letteratura, in Italia vanno ricordati, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini e Umberto Saba. Occorre dire però che “sono stati soprattutto gli autori latino-americani a trasformare il calcio in una moderna forma di epica. E allo stesso modo in cui Paesi come il Brasile e l’Argentina esportano giocatori in tutto il mondo, l’epica calcistica di autori come Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano è stata esportata in tutto il mondo. Questi scrittori hanno saputo presentare il calcio per quello che veramente è, ossia una forma d’arte popolare.” M. Vázquez Montalbán, Calcio. Una religione alla ricerca del suo Dio, Milano, Frassinelli, 1998.
2. O. Soriano, Triste solitario y final, Torino, Einaudi, 2006.
3. La “rosa” della Gang era costituita, more solito, dal “Bomber” Flamo, da Giò detto “Tepepa”, dal “Barone”, da “Simon Templar”, da “Gianni & Pinuccio” e dal “Bolla”. Vi erano poi, Massimino detto “Belfagor”, “Spartaco” Jack, “El loco” Emilio, Pablo detto “Vidocq”, Claudio “Papillon”, “Zi Pippo” e il mitico “Pando”.
4. Perroquet (pappagallo): pastis (liquore francese a base di anice) con l’aggiunta di sciroppo di menta.
5. A. Ciosi, Le dernier des bandits, Musidisc in Chanson française, 2008.
6. Oscar Alberto Dertycia Álvarez (Córdoba, 1965) era un attaccante argentino acquistato nel 1989-1990 dalla Fiorentina per due miliardi di lire. L’avventura calcistica del Tiburon in Italia durò lo spazio di una sola stagione e si concluse con un grave infortunio, 19 presenze e 4 reti.
7. Rapid eye movement (REM) è il “movimento rapido degli occhi” (nistagmo) che si verifica durante una delle fasi del sonno. Gli studi compiuti a tale riguardo hanno dimostrato che la fase REM (detta anche sonno paradossale) è accompagnata da un’intensa attività onirica.
8. La bombonera (Estadio Alberto Jacinto Armando) è uno stadio di Buenos Aires nel quale gioca il Boca Juniors. Il giorno dell’inaugurazione (25 maggio 1940), uno dei progettisti dell’impianto, Josè Delpini, ricevette in dono una scatola di bombones da cui deriva il nomignolo con cui lo stadio è conosciuto.
9. Nell’antica Grecia Asclepio (Esculapio per i romani) era il dio della medicina. Passare la notte in uno dei suoi santuari (celebre quello di Epidauro) equivaleva, per gli ammalati che vi si recavano in pellegrinaggio, ad andare incontro ad una guarigione certa grazie ai consigli che il dio dispensava loro durante il sonno.
10. S. Giuntini, Pugni chiusi e cerchi olimpici. Il lungo ’68 dello sport italiano, Milano, Odradek, 2008; M. Chao, Me Gustas Tu, in Próxima Estación: Esperanza, 2001.
11. “Lo toma el futbolista para entrar goles, también lo toman los buenos nadadores. Si lo toma el ciclista, se hace el amo de la pista y si es el boxeador, (bum, bum), golpea que es un primor. Es el Cola-Cao desayuno y merienda ideal.” A. Machin, La Canción del Cola-Cao, di A. J. Dotras, España, 1956.
12. Il Satori (dal giapponese satoru, “rendersi conto”) nella pratica del buddismo zen indica l’esperienza spirituale dell’improvviso risveglio, nel quale non ci sarebbe più alcuna differenza tra colui che si “rende conto” e l’oggetto dell’osservazione (cioè, nel mio caso, la sfera di cuoio denominata, secondo la vulgata, “O’ pallone” che, come cantava il comico Francesco Paoloantoni, “è la più bella cosa, per chi lavora e non si riposa”).
13. La parola shibumi “allude a una grande raffinatezza sotto apparenze comuni. Shibumi è comprensione più che conoscenza. Silenzio eloquente. Nell’arte, dove lo spirito di shibumi prende la forma di sabi, è elegante semplicità. Nella filosofia emerge come wabi, serenità spirituale non passiva; l’essere senza l’angoscia del divenire.” R. W. Trevanian, Il ritorno delle gru, Milano, Bompiani, 1979, p. 42.
14. Il Go è un gioco da tavolo di origine cinese. I due giocatori posizionano le pedine (pietre) nere e bianche sulle intersezioni vuote di una scacchiera detta goban. Lo scopo del gioco è quello di controllare la scacchiera cercando di occupare le porzioni di campo lasciate libere dagli avversari.
15. Nel Ju jitsu lo stahara (la parola deriva dal giapponese shita hara cioè basso addome) include la regione addominale, il diaframma e il plesso solare. Esercitare il controllo (balance-control) sul proprio centro di gravità consente di sbilanciare l’avversario. Cfr. A.C. Smith, The secrets of Ju jitsu, Columbus, Georgia, Stahara publishing company, 1920, p.4.
16. E. Rahn, La tremenda forza del Ju Jitsu, Milano, De Vecchi Editore, Milano, 1964.
17. Sulle “cipolline” si veda L. Garlando, Supergol! Le cipolline in Nazionale, Milano, Il Battello a Vapore, 2009.
18. S. Benni, La Compagnia dei Celestini, collana Universale Economica Feltrinelli, Milano, Feltrinelli, 1995.
19. Op. cit.
20. La canzone del sole/Anche per te, uno dei singoli di maggior successo di Lucio Battisti, venne pubblicato nel 1971 dalla casa discografica Numero Uno.
21. Los Ángeles de la Cara Sucia erano i giocatori argentini Humberto Maschio, Antonio Valentín Angelillo e Omar Sivori. Erano soprannominati “gli angeli con la faccia sporca” perché terminavano sempre le partite con il volto e la divisa infangati.
22. R. M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi, 1974, p.78.
23. Sul leggendario paròn allenatore di Triestina, Padova, Milan, Torino e Fiorentina cfr. G. Garanzini, Nereo Rocco. La leggenda del paròn continua, Milano, Mondadori, 2009.
24. Sul Qin Na si veda Yang Jwing-Ming, Analisi approfondita del Qin Na dello Shaolin, Perugia, Calzetti e Mariucci. Editore, 1996.
25. Lo Skylab Hurricane, lo Skylab twin shot e la Triangolazione Aerea sono alcune delle peculiari tecniche di gioco utilizzate dai personaggi del cartoon di Holly e Benji.
26. Sun Tzu, L’arte della Guerra, Tascabili Economici Newton, 1994.
27. Si veda, a tale proposito, Dino Viola, presidente della Roma nel campionato 1980/81 e il gol fantasma di Turone alla Juventus di Boniperti e Trapattoni.
28. Cfr. F. De Gregori, La leva calcistica della classe ’68, in Titanic, 1982.
29. Il testo della canzone Viva Zapata è della Banda Bassotti.
30. Il pathos che precede l’esecuzione di un calcio piazzato decisivo durante un incontro calcistico è stato splendidamente descritto da Osvaldo Soriano nel racconto intitolato Il rigore più lungo del mondo in Pensare con i piedi, Torino, Einaudi, 1995; D. Van De Sfroos, Yanez, 2011.
31. P. Patui, Volevamo essere i Tupamaros e altri racconti di pallone, Udine, Kappa Vu, 2005, p.12.
32. Quando si calcia un pallone, la traiettoria di quest’ultimo è determinata da tre forze diverse che interagiscono tra loro:
1 - “La forza di propulsione che viene applicata al pallone dal piede del giocatore:  quanto più grande è la forza che viene data al pallone tanto maggiore sarà la distanza che potrà raggiungere. La velocità del pallone è massima al momento del calcio e diminuisce progressivamente per effetto della resistenza dell’aria.
2 - La forza di attrito prodotta dall’avanzamento nell’aria durante il volo. La resistenza dell’aria varia in funzione della dimensione e della forma dell’oggetto (nel nostro caso il pallone) e della velocità di avanzamento. Questa forza è contraria alla forza di propulsione e produce il progressivo rallentamento del pallone.
3 - La forza di gravità (G) che agisce verso il basso ed è costante. Questa forza è responsabile della curvatura della traiettoria verso  il terreno”. Cfr.Sport and Technology, www.globuscorporation.com
33. Cfr. E. Berselli, Il più mancino dei tiri, Milano, Mondadori, 1995. Del resto, “per quanto i tecnocrati lo programmino, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler esser l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventar scemo l’atleta scolpito in Grecia.” E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Milano, Sperling & Kupfer, 2005, p. 243.


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